martedì 28 aprile 2009

Tecnologie collaborative per i bambini

La tecnologia può favorire lo sviluppo di competenze comunicative nei bambini e contribuire allo sviluppo cognitivo e sociale in generale? Ed in particolare, la tecnologia può venire incontro alle grandi speranze dei genitori dei bambini autistici? Alcune risposte a questi interrogativi verranno dai risultati di “COSPATIAL”, un progetto europeo appena avviato, coordinato dalla Fondazione Bruno Kessler (FBK) di Trento, dedicato alla messa a punto di tecnologie collaborative per la promozione dell’apprendimento di competenze sociali da parte di bambini e ragazzi con sviluppo tipico o con autismo. Un esempio: due bambini giocano con un puzzle elettronico e si rendono conto che ogni tessera sul tavolo digitale può essere spostata solo se entrambi vi appoggiano contemporaneamente le mani e la trascinano insieme. Piccoli gesti che acquistano un significato ben più profondo, se si condividono pensieri ed emozioni.L’obiettivo principale del progetto è quello di sviluppare una struttura di lavoro basata sulle relazioni tra il modello teorico della Terapia Cognitivo-Comportamentale (CBT) e le funzionalità delle nuove tecnologie collaborative in modo da poter utilizzare queste relazioni per verificare l’acquisizione ed il potenziamento di competenze sociali nei bambini. In particolare COSPATIAL si indirizza verso due tipi di tecnologie che in studi precedenti hanno mostrato buone potenzialità nel migliorare le abilità sociali: ambienti collaborativi virtuali e superfici attive condivise.Il programma di ricerca COSPATIAL sarà coordinato per i prossimi tre anni da Massimo Zancanaro, responsabile dell’Unità “Intelligent Interfaces and Interaction” al Centro “Tecnologie dell’Informazione” della FBK e prevede la partecipazione delle Università di Nottingham (UK) e Birmingham (UK) che in particolare si dedicheranno ad applicazioni basate sulla realtà virtuale, di Haifa (Israele) e Bar Ilan (Israele) che approfondiranno la sperimentazione in ambito clinico. Alla FBK saranno sviluppate delle superfici digitali interattive (da tavolo o da parete) sulle quali bambini e ragazzi potranno interagire per giochi condivisi o la creazione di favole e storie, sulla base di programmi educativi elaborati da un team composto da psicologi, educatori, insegnanti e terapisti.La fase finale del progetto comporta la validazione delle competenze sociali acquisite attraverso le tecnologie, anche in compiti precisi del mondo reale: le strategie collaborative apprese nel contesto tecnologico (paragonabile ad un laboratorio) possono essere generalizzate ad altri ambienti, strutturandosi nelle abilità sociali del bambino? Dal punto di vista del modello teorico della CBT la competenza sociale si configura come un costrutto multidimensionale che correla tra loro competenze emotive, cognitive e comportamentali per affrontare in modo efficace le richieste e le pressioni quotidiane in diverse situazioni sociali ed influenza l’abilità del bambino ad apprendere in contesti educativi formali ed informali.Seguendo il percorso dello sviluppo emotivo ipotizzato da Piaget, non appena i bambini diventano capaci di interagire con i loro pari, si stabiliscono rapporti di cooperazione in cui teoricamente nessuno può imporsi agli altri, in quanto ancora non esistono differenze significative di potere o di autorità. Ciascun bambino è allo stesso tempo indotto a comprendere il punto di vista degli altri, mettendosi nei loro panni (principio base dell’empatia) e a far sì che gli altri capiscano il suo, entrando in un circolo di mutuo rispetto. Martin Hoffman, docente di psicologia alla New York University, autore di una teoria psicologica sullo sviluppo sociale che mette al centro la nozione di empatia, amplia ulteriormente i concetti espressi da Piaget. “Nei contesti di cooperazione, i bambini giungono a costruire spontaneamente, attraverso una serie di aggiustamenti o di una esplicita negoziazione, sia delle regole relative ad aspetti più o meno specifici dei loro giochi (ad esempio riguardo all’ordine in cui cominciare, o al come assegnare i ruoli in un gioco di gruppo), sia dei principi generali di giustizia, fino a capire la necessità di trattare gli altri come essi vorrebbero essere trattati - scrive Hoffman nel saggio “Empatia e sviluppo morale” (il Mulino), opera che raccoglie trent’anni di ricerche in campo sociale. “Il rispetto di queste regole e di questi principi deriva, a questo punto, dalla sensibilità dei bambini per i sentimenti per gli altri e dal desiderio di continuare a mantenere con essi dei rapporti basati sulla collaborazione e il mutuo rispetto”, conclude lo psicologo.
Articolo di ROSALBA MICELI, tratto da: http://www.lastampa.it/





Gli effetti positivi della videocomunicazione

Secondo uno studio presentato in questi giorni da Cisco, intitolato “Successful Video Communications” e condotto da Pearn Kandola con l'obiettivo di analizzare la psicologia della comunicazione nel mondo business, le applicazioni per la videocomunicazione aiutano le discussioni nei meeting online, rafforzano le relazioni e migliorano il rapporto fra le persone.Tuttavia, evidenzia lo studio, per alcuni soggetti, la comunicazione in video ha ancora l'effetto di aumentare il livello d'ansia e di inibizione: perché diventi uno strumento di comunicazione efficace, è importante che le imprese aiutino i loro dipendenti a sviluppare competenze adeguate per sfruttarla al meglio.La comunicazione video sta diventando una norma fra i team dispersi geograficamente e rappresenta un'alternativa fattibile agli incontri di persona. Importante è però stabilire come abbattere le barriere psicologiche che ne ostacolano l'uso, e come le persone possano sviluppare la necessaria familiarità, fiducia e tranquillità per usarla regolarmente.La ricerca evidenzia quali effetti l'utilizzo del video possa avere su persone con diversi tipi di personalità, analizzando sei differenti figure.
Leader/ Dominatore: colui che guida il meeting. La possibilità di vedere tutti i partecipanti alla riunione riduce il rischio che egli domini eccessivamente la discussione.
Energetico/Distratto: il video rende più stimolante la situazione, riducendo i momenti di distrazione e aumentando l'impegno.
Pensatore/Sfuggente: riflette in modo approfondito sui temi in discussione. Potendo cogliere i segnali visivi, si riduce il rischio che i suoi momenti di riflessione siano interpretati scorrettamente come disimpegno.
Amichevole/Chiacchierone: rischia di parlare troppo al posto degli altri o di provocare digressioni rispetto al tema in agenda. La possibilità di vedere i colleghi fornisce un contesto per interpretare le pause naturali della conversazione, riducendo il loro bisogno di “riempire” i momenti di silenzio.
Creativi / Astratti: caratterizzati da una grande ricchezza di creatività e di idee audaci, restano più ancorati alla discussione grazie alla maggiore ricchezza di interazione.
Atterratori/Ostruttivi: il video dà loro una presenza visiva durante le riunioni, aiutandoli a fare ascoltare le proprie opinioni senza dimostrarsi troppo ostruttivi.
Ma non è tutto. Secondo lo studio, la comunicazione video può aiutare ad accelerare la costruzione della relazione in culture differenti, ad esempio tra quelle cosiddette “ad alto contesto” quali quella cinese, giapponese e mediorientale - in cui la relazione si basa sull'integrità e sul valore dato all'interazione sociale e quelle “ a bassa distanza”, come accade in Paesi quali Germania, Svezia, Danimarca, in cui generalmente fra colleghi ci si relaziona in modo paritario, al di là della posizione formalmente detenuta in azienda.Lo studio ha poi tracciato un'analisi delle diverse tipologie di comunicazione video, evidenziando quali sono i contesti ai quali meglio si adatta.
Video telefonia: viene utilizzata nelle comunicazioni quotidiane. Facile da usare; la qualità del segnale video può ridurre la trasmissione dei segnali visivi.
Video conferenza basata su web - Usata nelle riunioni di team con individui distribuiti geograficamente ed in incontri con persone esterne al gruppo. E' ampiamente accessibile; le piccole dimensioni delle immagini rendono difficile cogliere i segnali visivi.
Video conferenza - Incontri di gruppo con una o due persone in ognuno dei luoghi connessi. Qualità video migliore rispetto alle webcam, ma può essere insufficiente a cogliere i segnali più sottili. La qualità audio può risentire negli incontri con tanti partecipanti.
Telepresenza - Utile per mantenere vive relazioni di alto livello a distanza. Più vicina all'esperienza di incontro dal vivo, le immagini a dimensioni reali veicolano il linguaggio del corpo e i gesti.
Articolo tratto da: http://www.ilsole24ore.com/


Pubblicato da Andromeda Associazione Culturale > Scarica qui la brochure di presentazione dell'Associazione Andromeda

mercoledì 22 aprile 2009

71% universitari non conosce parola stalking

Stalking, questo sconosciuto. Il 71% degli studenti universitari italiani, infatti, non sa cosa significhi questa parola e cioè tutti quei comportamenti persecutori, gli atteggiamenti minacciosi, ossessivi e di controllo nei confronti di una vittima che può essere un ex partner, un conoscente occasionale o un perfetto estraneo. A evidenziarlo è una ricerca condotta dall’Osservatorio nazionale sullo stalking (Ons) di Roma su 800 giovani di 16 Facoltà dell'ateneo capitolino 'La Sapienza'."E' allarmante - commenta Massimo Lattanzi, psicoterapeuta e fondatore dell'Ons - il gap fra la portata del fenomeno e il suo grado di conoscenza, soprattutto fra le nuove generazioni. E' un problema che coinvolge anche i più giovani, ma di cui proprio loro hanno poca consapevolezza: a seguito di chiarimenti sulle forme dello stalking, infatti, il 12,7% degli studenti intervistati si è riconosciuto vittima, il 4% autore". Fra chi dichiara di essere vittima di stalking, il 16% ha subito un grave trauma come la perdita di un familiare (33%) o la separazione dei genitori (28%). Il trauma da 'abbandono', dunque, sembrerebbe inibire o ridurre la capacità, fra le vittime, di riconoscere l’atteggiamento dello stalker o di intraprendere comportamenti difensivi adeguati. E questo anche in virtù del rapporto di familiarità spesso esistente fra stalker e vittima: in otto casi su 10 i due si conoscono. Bassa è poi la propensione alla denuncia da parte degli intervistati: secondo la ricerca solo il 17% racconterebbe le molestie subite. E le motivazioni sono le più svariate: il 26% preferirebbe aiutare lo stalker piuttosto che farlo arrestare; il 13% ha paura di aumentarne l’aggressività e peggiorare la situazione; il 7% ritiene di non essere creduto e un ulteriore 7% crede che si tratti di fatti non gravi. Fabio Roia, componente del Consiglio superiore della magistratura, esprime "apprezzamento per l’introduzione in Italia di una normativa sullo stalking che preveda e punisca condotte persecutorie. E' un provvedimento che riempie un vuoto giuridico che non consentiva di intervenire in tutti i casi di attività insidiose". Prima dell’approvazione del decreto legge voluto dal ministro per le Pari opportunità, Mara Carfagna, "occorrevano sforzi interpretativi da parte dei pubblici ministeri o, paradossalmente, atti aggressivi più gravi per consentire un intervento efficace sotto il profilo cautelare e di protezione della vittima. Per il futuro, per meglio rispondere all’esigenza di tutela della vittima occorrerà creare un sistema di intervento 'in rete' che veda la collaborazione di comparto pubblico, privato sociale, forze di polizia specializzate e autorità giudiziaria appositamente formata". Sono 1.139.000 le donne (dati Istat 2006) che nel nostro Paese sono state vittime di stalking nel corso della loro vita. Se a esse si aggiungono coloro che hanno subito, oltre allo stalking, anche violenze fisiche e sessuali, si sale all’allarmante cifra di 2 milioni e 77 mila vittime. Nell’80% dei casi, secondo l’Ons, le vittime sono donne e la durata media delle persecuzioni è di circa un anno e mezzo. Circa il 70% di chi ha subito stalking, ha avuto conseguenze a livello psico-relazionale spesso gravi, ma solo il 17% ha sporto denuncia alle Forze dell’Ordine.
http://www.adnkronos.com/IGN/Salute/?id=3.0.3120525553


Introduzione alla Mediazione Familiare Relazionale-Sistemica

MEDIAZIONE:"attività di chi si interpone tra due o più persone per facilitarne le relazioni e gli accordi""Azione svolta da terzi per il raggiungimento di un incontro e di un accordo...MEDIATORE:"persona o ente che intervenga per determinare l’incontro e l’accordo di due parti""elemento determinante nello stabilire un rapporto di conciliazione o di compromesso "
Nel vocabolario di latino "MEDIUM" sta ad indicare "ciò che sta nel mezzo" o anche "sforzo intermedio o interno".Da tali definizioni emerge la necessità della presenza di un terzo (imparziale) a svolgere la funzione di mediazione e due finalità della stessa:"l’incontro" e "l’accordo".L’azione del mediare è sempre posta tra almeno due parti e il mediatore diviene un canale, una via di comunicazione preferita quando il rapporto è difficile.Chi sta vivendo un conflitto sa bene quanto sia difficile uscire dal vissuto emotivo per instaurare un registro di razionalità che permetta di poter discutere del problema, il riferimento ad un terzo è quindi una garanzia, un mezzo appunto di comunicazione. Il terzo rappresenta l’istanza razionale, la possibilità di spostare il conflitto da un piano emozionale ad uno di possibile analisi ed elaborazione. Il tentativo, quindi, della mediazione sistemica-relazionale è quello di:
a) creare uno spazio, una prospettiva dalla quale poter vedere la cosa in modo diverso, un luogo virtuale nel quale potersi incontrare, riconoscendo che cosa sta succedendo e che cosa si sta giocando; b) la capacità di interrompere la catena delle reazioni emotive, di separarsi dalle emozioni per poterle riconoscere (ciò spiega il perché la mediazione familiare è spesso considerata un intervento specializzato di counselling). La mediazione familiare è una metodologia di aiuto alla coppia in un momento particolare del ciclo vitale della famiglia, cioè in un momento di crisi (dover affrontare un evento critico del ciclo vitale). Essa può essere utilizzata nei vari momenti del processo di crisi: a) nella fase della presa di decisione (se separarsi o meno);b) nella fase legale della separazione;c) nella fase post-sentenza;d) durante il lungo processo di elaborazione psicologia del "lutto";e) in occasione della revisione dell’affidamento dei figli. La mediazione familiare, offre alla coppia un contesto strutturato, con la presenza di un terzo elemento neutrale (imparziale), "il mediatore", atto a favorire le potenzialità evolutive della crisi e del conflitto, in particolar modo in funzione dello sviluppo e della maturazione dei figli, rendendo i genitori protagonisti delle decisioni che riguardano la relazione affettiva ed educativa con i figli.
Elemento centrale di ogni mediazione è quindi l’assunzione o la riassunzione della responsabilità genitoriale da parte della coppiaed il rifiuto della delega ad un terzo, sia esso un giudice o un consulente.
La mediazione riapre uno spazio comunicativo all’interno della coppia separata, permettendo di ridefinire confini e relazioni e quindi di raggiungere accordi che siano fondati, stabili il più possibile nel tempo perché nati da una consapevolezza; spesso accade, invece, che gli accordi legali siano generici e superficiali o, in caso di elevata litigiosità, siano delegati dalla coppia ad un terzo esterno, cioè ad un giudice, che si assume, utilizzando strumenti talvolta non adeguati, la responsabilità decisionale che di fatto spetterebbe ai genitori. Dove è nata la MediazioneLa mediazione è nata negli USA; inizialmente si parlava di mediazione per le controversie di lavoro, nel periodo della prima guerra mondiale, poi il concetto si è molto esteso, allargandosi alla mediazione familiare; questo intervento è nato come reazione al modo in cui venivano affrontate nella cultura legale americana le separazioni ed i divorzi, esasperando cioè la conflittualità e la competizione. Nella coppia ci doveva sempre essere un vincitore e un vinto, gli avvocati, per motivi economici, si occupavano soprattutto di far raggiungere quel certo "oggetto" del contendere, non si occupavano né dei membri della coppia (il vissuto psicologico, la sofferenza e il dolore che la rottura del legame comporta, non veniva affrontato), né dell’interesse dei figli minori. Un gruppo di avvocati e di terapeuti, che avevano subito sulla propria pelle separazioni molto drammatiche per sé e per i propri figli, nel corso degli anni ’70, crearono la mediazione familiare: cito in particolare due personaggi, che sono un po’ i padri della mediazione familiare, Kubler (avvocato, il primo che mette a punto un modello di mediazione strutturata) e Haynes (terapeuta sistemico-relazionale che dà una veste di tipo terapeutico a questo intervento). Dall’America la mediazione si è diffusa prima in Canada, poi dal Canada in Francia e quindi in Europa. La Mediazione in Italia“La Mediazione Familiare, in materia di divorzio o di separazione, è una procedura in cui un terzo, neutrale (imparziale,n.d.a.) e qualificato, viene sollecitato dalle parti per fronteggiare la riorganizzazione resa necessaria dalla separazione, nel rispetto del quadro legale esistente. Il ruolo del mediatore familiare è quello di portare i membri della coppia a trovare da sé le basi di un accordo durevole e mutuamente accettabile, tenendo conto dei bisogni di ciascun componente della famiglia e particolarmente di quelli dei figli, in uno spirito di corresponsabilità e di uguaglianza dei ruoli parentali” (APMF, 1990). La “Mediazione Familiare”, come si evince dalla definizione pubblicata in Francia nel 1990 dall’Associazione per la Promozione della Mediazione Familiare, è un tipo di intervento volto alla riorganizzazione delle relazioni familiari ed alla gestione o attenuazione dei conflitti in caso di separazione o di divorzio, attraverso l’aiuto di un terzo “imparziale”, il mediatore, competente sia in materia legale che in materia sociopsicopedagogiche.In Italia la Mediazione nasce a Milano presso la Gea, Genitori Ancora, come associazione di mutuo-aiuto costituita da genitori separati che si aiutavano a vicenda. Da questo gruppo, che man mano si è specializzato nelle disciplini giuridiche e psicologiche, nasce la SIMEF, Società Italiana di Mediazione Familiare. La Simef, i cui fondatori sono stati Bernardini e Scaparro, è costituita principalmente da medici e psicologi che operano nel campo familiare. Nello stesso anno, 1975, con De Bernard, Russo, nasce l’A.I.M.S. (Associazione Internazionale Mediatori Sistemici)L’A.I.M.S. si sviluppa all’interno degli Istituti di Terapia Familiare, maggiori sono quindi le sedi e diverse le figure professionali (psicologi,pedagogisti, sociologi, medici, avvocati, ass.sociali, insegnanti) che, accomunate dall’ottica sistemico-relazionale, vi aderiscono.
Le parole chiave che ricorrono nell’ottica sistemico-relazionale sono: Comunicazione; Conflitto; Apprendimento; Relazione.

La comunicazione, letteralmente “far comune ad altri ciò che è nostro”, è alla base della relazione in quanto “è impossibile non comunicare”. La psicologia sistemica-relazionale ci insegna che noi possiamo esistere solo se siamo riconosciuti: questo bisogno, che ci accompagna per tutta l'esistenza viene soddisfatto attraverso un continuo “dialogo” (dià=tra + lògos=parola, discorso).Il bisogno di “sentirsi riconosciuto” emerge con chiarezza durante le vicende legate ad una separazione legale: si ricorre al giudice per un “riconoscimento” (il ruolo di padre o di madre), per un “risarcimento” (l’altro mi deve ripagare quanto fatto)…e in questo gioco collusivo del “sentirsi riconosciuti” cadono quanti, chiamati in causa (avvocati, psicologi, consulenti, mediatori), non solo colludono con le parti ma confliggono con gli altri operatori “pur di non riconoscergli un ruolo” nella gestione della vicenda.Il conflitto è mancanza di relazione o di comunicazione. Il litigio, le scenate o le sceneggiate cui assistiamo, costituiscono soltanto l’espressione esterna, il “sintomo” di un disagio o di una difficoltà più profonde. L’apprendimento è una condizione biologica di sopravvivenza di un sistema. Ogni sistema è sempre un sistema in evoluzione, l’evoluzione può essere in positivo o in negativo. Un sistema in conflitto, quindi, è un sistema in cambiamento, da una fase precedente ad una fase nuova (crisi).La relazione, dal latino res+azione, significa portare una cosa insieme, una cosa nuova che è il “noi”, non più l’Io o il Tu. Il Mediatore utilizza la Relazione per aiutare le parti a gestire il Conflitto e quindi avviarle verso un Apprendimento.Il mediatore familiare, così come cita l’art.4 del Codice deontologico dell’APMF, deve possedere una competenza tecnica in una professione legata alle scienze umane e/o giuridiche (psicologo, pedagogista, assistente sociale, avvocato,etc.) per poi seguire una formazione specifica in mediazione familiare (della durata di 240 ore), coadiuvata da continui corsi di aggiornamento e da una costante supervisione.Il ruolo del mediatore familiare non è quello di aiutare la coppia a mantenere la loro relazione (psicoterapia), né quello di dirigere le parti verso un’intesa (consulenza legale), ma, come cita la definizione, è quello di lavorare “insieme” alle parti coinvolte aiutandole a gestire il conflitto, così che siano le parti stesse a negoziare accordi soddisfacenti e duraturi e/o a rivederli.Le parti coinvolte in un conflitto, infatti, se opportunamente supportate, sono in grado di assumere decisioni riguardo la propria vita più di quanto possa fare un’autorità esterna (come per esempio un arbitro, un negoziatore puro, o un giudice) e rispettano di più le decisioni se essi stessi hanno contribuito al loro raggiungimento e se accettano il procedimento che ha condotto all’accordo. Il mediatore sa che di per sé il conflitto non è una malattia, ma che un conflitto non gestito è pericoloso. Spesso, infatti, un conflitto è generato dal fatto che le parti non sanno come affrontare e gestire un problema,quindi, dalla incapacità a definirlo.Non dobbiamo dimenticare che, il clima emotivo su cui il mediatore interviene, è quello di una separazione, e che non esistono “buone separazioni” ma “separazioni meno dolorose”.Chiudere la propria storia affettiva significa, inevitabilmente, veder crollare tutti gli investimenti, le aspettative, i desideri, di cui, in quanto “storia”, la relazione di coppia è stata nutrita. Se in un primo momento la mediazione familiare offre agli ex-coniugi uno spazio di discussione, di riflessione e di elaborazione della propria conflittualità, così da raggiungere un minimo accordo da presentare al giudice, in un secondo momento offre un’area di ridefinizione del ruolo genitoriale, un nuovo modo di vivere e condividere la genitorialità che prescinde dal loro essere stati coniugi e che riguarda i sentimenti di paternità e maternità.Dal punto di vista giuridico “il bambino ha il diritto ad avere due genitori” e questi hanno “la stessa dignità genitoriale”.Una buona mediazione familiare, oltre ad evitare ai figli quella “penosa situazione” che porta a vedere i genitori “incapaci e bisognosi” di un terzo (il giudice) che dica loro come comportarsi, evita, al giudice stesso, o ai consulenti tecnici d’ufficio, di dover scavalcare la “dignità genitoriale” decidendo quale dei due è il “genitore di serie A” (affidatario). Aiutare gli ex-coniugi a gestire il conflitto, “due” genitori a trovare le soluzioni più adeguate per tutti, in particolare per la parte debole del sistema familiare, è il compito di quanti lavorano nella Mediazione Familiare.
"Introduzione alla Mediazione Sistemica-Relazionale e Familiare", tratto in data 21-04-2009 da Obiettivo Psicologia. Formazione, lavoro e aggiornamento per psicologi


Pubblicato da Andromeda Associazione Culturale > Scarica qui la brochure di presentazione dell'Associazione Andromeda

giovedì 16 aprile 2009

Atti Mancati

A mettere in fila gli avvenimenti degli ultimi giorni, dalle ultime settimane, si ha l’impressione di assistere ad una sequenza di atti mancati. Fatti che avrebbero dovuto esserci e non ci sono, parole che avrebbero dovuto esserci e non ci sono. Un’assenza che pesa, lascia stupiti.A partire dalla vicenda brasiliana: una bambina di nove anni, da tre vittima della violenza del patrigno, che abusava sistematicamente di lei. Finchè la piccola non si è ritrovata incinta di due gemelli. Una creatura di nove anni, una manciata di chili e di tormenti, che ha dovuto imparare troppo presto quanto la vita possa essere infame. L’ha provato sulla sua pelle, una pelle troppo giovane, troppo, per sopportare oltre, troppo giovane per tollerare l’imposizione di una maternità figlia di prolungate violenze, troppo giovane per rischiare la propria vita portando avanti la gravidanza.
La bambina è stata presa in cura da un medico. Un medico che pensa, come vuole la legge, che non si debba obbligare una donna, e tanto meno una bambina, a mettere al mondo il frutto di uno stupro. Un medico che sapeva perfettamente quale rischio corresse la vita di quella bambina, se avesse portato avanti la gravidanza. Un medico che, insieme alla madre della piccola, ha interrotto la gravidanza.Una vicenda terribile, che ha avuto un epilogo che ha lasciato attoniti tanto i medici quanto i giornalisti che hanno seguito la vicenda. José Cardoso Sobrinho, arcivescovo di Olinda e Recife, ha scomunicato la madre della bambina e i medici che si sono occupati di lei. La bambina no, perchè troppo giovane per una scomunica, anche se abbastanza grande, per monsignor Sobrinho, per affrontare un parto gemellare che avrebbe messo a rischio la sua vita. Quasi un’espiazione per la “colpa” di aver subito violenza. Perchè, per la Chiesa, l’abuso sessuale viene commesso CON la vittima, non CONTRO la vittima. Basta leggere il Crimen sollicitationis. E dunque la vittima è, ai loro occhi, colpevole quanto chi l’ha abusata.
Forse per questo quella carità cristiana, quella comprensione, quell’abbraccio consolatorio che ci si aspetterebbe dalla Chiesa, non c’è. Non c’è mai. E quell’assenza, quell’atto mancato, pesa.Così come pesa la distanza sempre più grande, incolmabile, che le gerarchie vaticane continuano a scavare tra la Chiesa istituzionale, quella con la maiuscola, e la chiesa dei fedeli, la comunità dei credenti. Una Chiesa cieca e sorda, distante dalla quotidianità delle persone comuni, lontana dalla vita. Una Chiesa arroccata nei palazzi affrescati che non immagina, non può immaginare, cosa sia la vita in una capanna di fango e paglia o in due camere allo Zen di Palermo, alle Vele di Scampia. Una Chiesa ammantata di ermellini e in scarpe di Prada che non immagina, non può immaginare, cosa sia rattoppare scarpe bucate e vestiti smessi da qualcun altro o morire di freddo sotto una coperta di cartone. Una Chiesa lontana quanto non è mai stato lontano Cristo.
Bastano le recenti parole del Pontefice, a confermarlo. Parole dette durante il volo che lo portava in Africa, un continente che vede milioni di suoi figli morire ogni anno per AISD. L’AIDS “non si può superare con la distribuzione di preservativi: al contrario, aumentano il problema“. Parole pronunciate durante l’intervista rilasciata a padre Federico Lombardi, portavoce del Vaticano, e alla presenza di una settantina di altri giornalisti. Parole che hanno scandalizzato, con raccapriccio, la Francia e la Germania. Noi no, i nostri politici no. Noi, cloroformizzati, non abbiamo battuto ciglio. Anzi, in linea con la pratica tutta italiana del “Sono stato frainteso”, è arrivato ai media anche un comunicato stampa dei vescovi camerunensi, che, in una nota, definiscono ”molto grave” l’atteggiamento di alcuni mass media, i quali ”hanno trascurato gli aspetti essenziali” del messaggio del Papa in Africa su povertà, riconciliazione, giustizia e pace. In particolare, i presuli denunciano che la polemica sui preservativi ha oscurato il dramma di tanti africani che muoiono a causa di malattie, poverta’ e guerre fratricide. Si dimenticano però, i presuli, di raccontare quanta responsabilità ha la cosiddetta “missione civilizzatrice” dei colonizzatori, in quelle guerre fratricide, e quanta responsabilità hanno anche i “missionari” e la Chiesa, che con i colonizzatori sono sempre andati sotto braccio, nel montare le fazioni una contro l’altra e combattere la propria guerra senza sporcarsi le mani.Un atto mancato, dunque, un altro fra i tanti. Perchè in Africa si dovrebbe andare con umiltà, con più umiltà che altrove. Si dovrebbe andare per capire, non per giudicare. Si dovrebbe andare per amare, non per imporre.
Così come un altro atto mancato, ma sempre in linea con la politica del “fraintendimento”, si registra nella pessima, pessima questione del vescovo Williamson, lefebvriano e negazionista. Un epilogo ridicolo se si pensa che la Chiesa, con alle spalle duemila anni di finissima politica e diplomazia (e non nella accezione più alta che hanno questi termini), piuttosto che fare un passo indietro preferisce sostenere la parte di chi casca dalle nuvole. “Una disavventura per me imprevedibile è stata il fatto che il caso Williamson si è sovrapposto alla remissione della scomunica” ha scritto Ratzinger in una lettera inviata a tutti i vescovi cattolici. “Il gesto discreto di misericordia verso quattro vescovi, ordinati validamente ma non legittimamente, è apparso all’improvviso come una cosa totalmente diversa: come una smentita della riconciliazione tra cristiani ed ebrei, e quindi come la revoca di ciò che in questa materia il Concilio aveva chiarito per il cammino della Chiesa“.Di nuovo frainteso, dunque. Anche se resta il dubbio del perchè abbia scritto ai vescovi e non direttamente ai cattolici, molti dei quali hanno protestato con una “veemenza quale da molto tempo non si era più sperimentata”, come il Pontefice stesso attesta.
E un altro atto mancato si registra in questi giorni, a Bolzano, con la vicenda di don Giorgio Carli, il sacerdote arrestato il 14 luglio 2003 con l’accusa di violenza sessuale continuata ai danni di una giovane donna, all’epoca dei fatti una bambina, che il sacerdote avrebbe violentato per cinque anni, dai nove ai quattordici, nella canonica della quale era cappellano. Fu prosciolto in primo grado, condannato a sette anni e mezzo in appello. In questi giorni la Corte di Cassazione lo ha prosciolto per la sopraggiunta prescrizione del reato. Il sacerdote, assistito dall’avvocato Franco Coppi, lo stesso che in un primo momento era stato chiamato a difendere Pierino Gelmini ma che rinunciò in seguito ad alcune esternazioni troppo veementi di quest’ultimo, non ha voluto rinunciare alla prescrizione e il processo si è chiuso così.
E la Diocesi non ha fatto attendere i commenti: «A carico di don Giorgio non esiste più alcuna sentenza di condanna. Per parte nostra abbiamo sempre creduto nella sua innocenza. Per questo egli è sempre rimasto confermato nel suo incarico di parroco ed ora riprenderà in pieno il suo ministero sacerdotale». Affermazioni molto, molto lontane dalla verità. Perchè don Giorgio Carli non è assolto, è prescritto: come Andreotti. L’esistenza del reato è stata riconosciuta, visto che la Corte lo ha condannato al risarcimento delle parti lese per 760.000 euro. La Cassazione ha stabilito che le violenze sessuali ai danni della bambina che all’epoca frequentava la parrocchia di San Pio X ci furono. Don Giorgio non dovrà scontare in carcere la pena perchè è trascorso troppo tempo. Nessuna assoluzione, dunque, ma solo la “grazia” della prescrizione. E il fatto che don Carli torni a dire messa è vergognoso, indecente. Pesa. Pesa quanto l’assenza di qualsiasi solidarietà della Chiesa con la vittima.
Pesa tanto quanto le dichiarazioni dell’arcivescovo Sobrinho all’indomani della scomunica ai medici e alla madre della bambina brasiliana: «La legge di Dio è superiore a qualunque legge umana. Quindi se la legge umana, cioè una legge promulgata dagli uomini, è contraria alla legge di Dio, questa legge umana non ha alcun valore».Pesa perchè di fronte a queste affermazione d’improvviso si capisce tutto. Si capisce che a questi uomini bardati di paramenti, incensati, claustrobificamente rinchiusi nelle chiese e nei palazzi, non interessa per nulla, per nulla, la carità che ha insegnato Cristo, la comprensione che ha insegnato Cristo, l’amore che ha insegnato Cristo. Interessa stabilire un primato di poteri, interessa vincere questa prova di forza al solo fine di stabilire una suprezia che non si sono mai rassegnati a perdere.
E in questo braccio di ferro istituzionale, lontano dalle miserie quotidiane, si illudono di aver sostiuito, al proprio braccio, il braccio di Dio.
Fonte: http://viaggionelsilenzio.ilcannocchiale.it/

Pubblicato da Andromeda Associazione Culturale > Scarica qui la brochure di presentazione dell'Associazione Andromeda

venerdì 10 aprile 2009

L’Ascolto Attivo di Ilaria Gheri

In ogni momento della nostra vita siamo immersi nella comunicazione. Anche quando pensiamo di nonesserlo. Ogni volta che guardiamo uno spettacolo od un film, ad esempio, la comunicazione avviene traquei protagonisti e le emozioni ed i pensieri che esse suscitano in noi; così anche quando leggiamo unlibro, sfogliamo una rivista, ascoltiamo della musica, osserviamo un dipinto…Quante volte capita di sentir dire che quell’artista è un incompreso, termine che è relativo allacomunicazione pura :“non ti comprendo”, non capisco cosa vuoi dire”.Ecco che allora mandare a memoria piccole strategie di comunicazione possono risultare di indubbio valoreogni qual volta ci sentiamo incompresi, o capiamo che l’altro si sente incompreso.Una piccola quanto potente ci viene offerta da Gordon che ha coniato una tecnica definita ascolto attivo.Attraverso l’uso di questa tecnica si arriva ad un livello della comunicazione che oltrepassa leincomprensioni dovute al non ascolto o all’ascolto parziale dell’altro. Ogni volta che ci sentiamo ringraziareper come abbiamo ascoltato l’altro, od ogni volta che ci sentiamo a nostra volta ben ascoltati è perché chiascolta è centrato su quello e basta, ha cioè spostato il suo sentire su chi parla ed ha ben distinto il sédall’altro.Gordon dice che per un buon ascolto è necessario seguire 4 passi:1. L’ascolto passivo: è il momento di silenzio interiore (e possibilmente anche esteriore), di chi è in ascolto.Ascoltare in silenzio permette all’altro di esporre senza essere interrotto. È così che percepisce l’attenzioneche gli viene rivolta.Aggiungerei che questa fase permette a chi ascolta di entrare in contatto anche con le proprie emozioni edi distinguere ciò che gli appartiene da ciò che appartiene al suo interlocutore. Questo io lo definiscoascolto emotivo, e lo ritengo un punto fondamentale da aggiungere ai passi definiti da Gordon, affinché ilrisultato ottenuto sia il migliore possibile. È infatti indispensabile capire quando un’emozione appartiene ame stesso oppure all’altro, perché mi permette di ricordare che non sempre le stesse esperienze o lestesse situazioni possono suscitare uguali emozioni.2. Messaggi di accoglimento: Sono sia messaggi verbali (“ti ascolto”, “sto cercando di capire”..); chemessaggi non verbali (cenni del capo, sguardo, sorriso…). Tutti quei messaggi cioè che sottolineanol’atteggiamento di ascolto.3. Inviti calorosi: Messaggi verbali che incoraggiano chi parla ad approfondire quanto sta dicendo(“dimmi..”, “spiegami meglio”..) senza valutare o giudicare ciò che viene detto.L’assenza di giudizio è fondamentale al raggiungimento di una corretta comunicazione fra le parti. Lasocietà in cui viviamo ci abitua fin da piccoli che giudicare ed essere giudicati è parte integrante dellanostra vita. Io non sono molto d’accordo. Il giudizio è una punta di valore che rimandiamo all’altro: seibravo, sei insufficiente, sei bello , sei brutto, sei buono, sei cattivo…. Nessuno però ci insegna quanto pesoportano con sé gli aggettivi che noi usiamo con tanta disinvoltura. Per fortuna Rogers lo fa.Ci ricorda che gli aggettivi definiscono l’altro per come noi lo percepiamo, ma non è detto che l’altro sia o sisenta così realmente. Ogni volta che usiamo un aggettivo quindi dovremmo ricordarci che stiamo definendol’altro, nel bene e nel male. A volte portare il peso di “sei buono” equivale a quello di “sei cattivo”: Non cilascia liberi di muoverci come vorremmo, perché mentalmente costretti a rispettare l’immagine sociale chegli altri hanno di noi. Questo non significa ovviamente che gli aggettivi debbano essere aboliti dal linguaggio

Fonte Psicolab - L’Ascolto Attivo di Ilaria Gheri


Pubblicato da Andromeda Associazione Culturale > Scarica qui la brochure di presentazione dell'Associazione Andromeda

Separazioni e divorzi in aumento. L'analisi del fenomeno in un convegno del Cnv sulla mediazione familiare


Dalle 91,3 separazioni ogni 100mila abitanti del 1995, si è passati alle attuali 140,4; per i divorzi, invece, da 47,2 ogni 100mila abitanti del 1995, si è giunti recentemente agli 80,3. Sono questi alcuni dei principali dati, indicativi di un incremento progressivo degli scioglimenti dei matrimoni in Italia, che saranno oggetto delle riflessioni durante il convegno internazionale sulla mediazione familiare “2 Minds”, promosso dal Centro nazionale per il volontariato.La giornata di approfondimento, che si terrà oggi 6 aprile a Firenze presso l’Istituto degli innocenti (informazioni su www.centrovolontariato.it), segna l’avvio di un nuovo progetto europeo comune, nell’ambito del programma daphne di cui il Cnv è coordinatore. Progetto che mira a rafforzare e consolidare legami sempre più stretti con chi opera, in diversi contesti nazionali, per la promozione e la diffusione della mediazione familiare.Un posto centrale, nel corso della giornata (in cui convergeranno mediatori, volontari ed operatori istituzionali), sarà rappresentato dalla relazione di Enzo Catarsi dell'Istituto degli Innocenti, che nel suo intervento si concentrerà sul percorso di ricerca sui servizi di mediazione familiare sviluppato dal Centro regionale di documentazione sull'infanzia.La relazione muoverà dal presupposto che la separazione costituisce un “evento difficile e doloroso nella vita delle persone”, spesso foriero di dolore e, talvolta, di risentimenti; questo, anche perché la separazione porta a una ristrutturazione della propria vita, e cambia notevolmente le proprie abitudini.Importanti i numeri, che denotano un progressivo incremento delle separazioni e dei divorzi a livello nazionale: per quanto riguarda le prime, si è passati dalle 52.323 del 1995 alle 71.969 del 2000, fino alle ultime stime, che registrano le 82.291 unità; per i divorzi, invece, si è passati dai 27.038 del 1995 ai 37.573 del 2000, fino ad arrivare agli attuali 47.036. Per quanto riguarda la Toscana, la realtà è andata migliorando negli ultimi anni, visto che adesso tutte le 34 zone socio-sanitarie (ad eccezione di una) hanno un servizio di mediazione familiare.L’intervento fornisce poi alcune anticipazioni riguardo una ricerca realizzata nell’ambito delle attività del Centro regionale di documentazione per l’infanzia e l’adolescenza (svolta per conto dell’assessorato alle politiche sociali della Regione Toscana), mediante una scheda di rilevazione e successive 30 interviste ad altrettanti responsabili di servizi di mediazione familiare.Testimonianze che si sono rivelate particolarmente interessanti per conoscere dal di dentro la realtà toscana, ravvisandovi anche alcune contraddizioni che permangono sulla stessa identità della mediazione familiare. Anche per questo, secondo Catarsi, occorre pensare ad una "campagna regionale di sensibilizzazione, che faccia conoscere il servizio di mediazione familiare, al pari dei parecchi altri che ormai sono attivi a sostegno della genitorialità".Fondamentale è, pertanto, una stretta integrazione del servizio di mediazione familiare con gli altri servizi di sostegno all’infanzia ed alle famiglie. Attenzione verrà prestata nella relazione anche alla legge sull’affidamento condiviso e al riverbero che ha avuto sui servizi di mediazione familiare.“Circa 10 anni fa, noi del Cnv – afferma la responsabile della progettazione europea, Rossana Caselli - abbiamo incominciato a elaborare alcuni progetti, forse un po’ carichi di utopia, in difesa dei diritti dei minori". Il mondo del volontariato, infatti, si è sempre interessato a bambini e adolescenti. "Ma noi volevamo farlo rafforzando un messaggio di pace e mediazione che potesse essere importante per tutti, grandi e piccoli, a partire dalla dimensione familiare. Volevamo cioè condividere con molte altre associazioni e istituzioni - spiega la Caselli - la voglia di affrontare i conflitti, non solo come eventi distruttivi, ma anche come occasioni di crescita e di trasformazione delle relazioni, aiutando innanzitutto i genitori in separazione a ritrovare fiducia, speranza e capacità di comprensione e riconoscimento reciproco". L’intento è quindi di diffondere la cultura della mediazione, da cui possono derivare risultati di grande utilità, non solo per i singoli, ma per l’intera collettività.
Fonte: http://www.loschermo.it/articolo.php?idart=16345